ESPROPRIAZIONE P.U.:
ricorso avverso il silenzio-inadempimento
in caso di inerzia sull'art. 42-"bis" del d.P.R. n. 327/01
(T.A.R. Campania, Salerno,
sentenza 31 gennaio 2013 n. 298)
a cura del Dott. Massimo Mazzola
Massima
A fronte di occupazione acquisitiva di un
immobile di proprietà privata da parte della P.A., qualora quest'ultima non
avvii ex se il procedimento di cui all'art. 42-bis di cui al d.P.R. n. 327/2001, il ricorrente dovrà esperire
il ricorso avverso il silenzio-inadempimento, al fine di sentir condannare la
P.A. rimasta inerte a provvedere.
Sentenza per esteso
INTESTAZIONE
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale
della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione
Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 331 del 2009,
proposto da:
Maria D'Alessio, nella qualità di procuratrice di Antonietta e Clementina Parisirappresentato e difeso dall'avv. Vincenzo Esposito, con domicilio eletto presso Luciano Bello in Salerno, alla via Margherita da Durazzo, n. 1;
Maria D'Alessio, nella qualità di procuratrice di Antonietta e Clementina Parisirappresentato e difeso dall'avv. Vincenzo Esposito, con domicilio eletto presso Luciano Bello in Salerno, alla via Margherita da Durazzo, n. 1;
contro
Comune di Calabritto, in persona del Sindaco in carica pro
tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Rizzo, con domicilio
eletto in Salerno, al corso Vittorio Emanuele, n. 127;
per la condanna
a) al pagamento, previa declaratoria di
illegittimità del procedimento di esproprio, dell’indennità di occupazione
legittima, per il tempo in cui la stessa è stata assistita da un valido decreto
di occupazione e, dunque, dal 15 marzo 1983 al 15 marzo 1988, oltre interessi
legali sulla somma che sarebbe spettata a titolo di esproprio per ciascun anno
di occupazione; b) al risarcimento del danno da occupazione sine
titulo, a far data dal termine finale di validità ed efficacia del decreto
di occupazione (15 marzo 1988) fino all’effettivo soddisfo, secondo i criteri
legali di cui all’art. 43, sesto comma, d.p.r. n. 327/2001, c) al
pagamento di spese, competenze ed onorari di causa, oltre accessori come per
legge, con clausola di attribuzione.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di
Calabritto in Persona del Sindaco P.T.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 novembre
2012 il dott. Giovanni Grasso e uditi per le parti i difensori come specificato
nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue.
FATTO
1.- Con ricorso notificato in data 2 febbraio 2009 e
ritualmente depositato il 16 febbraio successivo, Maria D’Alessio, nella
documentata qualità di procuratrice generale e speciale di Antonietta e Clementina
Parisi, ha evocato in giudizio il Comune di Calabritto per sentirlo condannare: a)
al pagamento, in proprio favore, dell’indennità di occupazione legittima delle
aree di proprietà oggetto del decreto in data 15 marzo 1983 prot.n. 1108
(erroneamente denominato decreto di esproprio), per il periodo dal 15 marzo
1983 al 15 marzo 1988, oltre interessi legali sulla somma che sarebbe spettata
a titolo di esproprio per ciascun anno di occupazione; b) al
risarcimento del danno da occupazione sine titulo, a far data dal
termine finale di validità ed efficacia del decreto di occupazione (15 marzo
1988), asseritamente non seguito da idoneo titolo ablatorio, fino all’effettivo
soddisfo, secondo i criteri legali ; c) al pagamento di spese,
competenze ed onorari di causa, oltre accessori come per legge, con clausola di
attribuzione al difensore costituito.
2.- Si costituiva in giudizio l’intimata
Amministrazione, la quale: a) in via preliminare ventilava il
difetto di giurisdizione dell’adito giudicante; b) eccepiva, nel
merito, l’intervenuta prescrizione dell’azione risarcitoria per decorrenza del
termine quinquennale in tesi decorrente dalla data di irreversibile
trasformazione delle aree interessate dall’occupazione; c)
deduceva, in ogni caso, l’intervenuta usucapione delle stesse per decorso
dell’ininterrotto termine ventennale di possesso; d) argomentava,
comunque, la ritualità della procedura seguita dall’Amministrazione,
sull’assunto che il gravato decreto del 1983 avrebbe dovuto essere
effettivamente inquadrato come decreto di esproprio; e) invocava,
per tal via, la complessiva reiezione del ricorso.
3.- Con ordinanza resa alla pubblica udienza del 19
gennaio 2012, il Collegio disponeva – a presa d’atto della sopravvenuta entrata
in vigore della disciplina di cui all’art. 42 bis del d.p.r.
n. 327/2001, introdotto dall’art. 34 d.l. n. 98/2011 e di immediata
applicazione in re – la rimessione della causa sul ruolo ex art.
73, 3° comma c.p.a., al fine di sollecitare il contraddittorio sul punto.
Alla pubblica udienza dell’8 novembre 2012, sulle
reiterate conclusioni dei difensori delle parti costituite, la causa veniva
riservata per la decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso è, nei sensi delle considerazioni che
seguono, infondato e merita di essere correlativamente respinto.
Va, liminarmente, respinta l’articolata eccezione di
difetto di giurisdizione alla luce del consolidato orientamento che attribuisce
alla giurisdizione amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che
abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi
divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di
efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un
valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri comportamenti materiali,
ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente
riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a., e che solo per
accidenti successivi - come avviene anche per l'ipotesi di successivo
annullamento giurisdizionale degli atti ablatori - hanno perso la propria
connotazione eminentemente pubblicistica (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez.
IV, 28 novembre 2012, n. 6012 e già Cons. Stato, Ad. Pl., 22 ottobre 2007, n.
12).
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa,
per spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad ottenere il
riconoscimento degli indennizzi per il periodo di occupazione legittima in
relazione alla quale continua a valere a tutti gli effetti la riserva disposta
dall'art. 53 comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1, lett. g,
c.p.a.): in termini, da ultimo T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 14 giugno 2012,
n. 2831.
2.- In termini generale, giova premettere che la
controversia in esame attiene alla vexata quaestio della
tutela del privato in presenza di occupazioni che, per quanto in origine
legittime, siano divenute sine titulo per mancata adozione,
nei termini di legge, di rituale misura ablatoria.
Va osservato, sul punto, che i percorsi di tutela
della proprietà privata a fronte dell’illegittimo esercizio del potere
espropriativo – oscillanti tra azione restitutoria,azione
risarcitoria per equivalente e (attualmente) potere
pubblicistico di acquisizione sanante ai sensi del vigente art. 42 bis del
t.u. n. 327/2001 – sono oggetto (anche, vale soggiungere, indipendentemente dai
persistenti dubbi di compatibilità costituzionale e di conformità alla
convenzione EDU del citato art. 42 bis, che Cons. Stato, sez. IV,
27 gennaio 2012, n. 427 ha, peraltro, inteso senz’altro fugare) di perdurante
dibattito dottrinale e di non sopiti contrasti giurisprudenziali.
I punti di partenza della questione sono, alquanto
paradossalmente, del tutto perspicui:
a) la c.d. occupazione appropriativa per
trasformazione irreversibile dell'immobile, come modo di acquisto della
proprietà a titolo originario, fondato sul principio della accessione c.d.
invertita mutuato per analogia dall’art. 938 c.c., dopo una (fin troppo nota e
travagliata) vicenda segnata dal progressivo affinamento del formante
giurisprudenziale, è stata ormai inesorabilmente espunta dal nostro
ordinamento, in virtù delle reiterate e decisive pronunzie della Corte di
Strasburgo (v., in termini perspicui, Cons. Stato, ad. plen., 29 aprile 2005,
n. 2, cui giova complessivamente rinviare);
b) di conseguenza, ricondotta la vicenda
della occupazione illegittima ad una “ordinaria” ipotesi di illecita ingerenza
nella sfera dominicale altrui, al proprietario leso spetteranno (ove si
prescinda, per un momento, dalla già ventilata possibilità che l’ente
espropriante eserciti il distinto potere di cui all’attuale art. 42 bis,
di cui si dirà) tutte le ordinarie azioni a difesa della proprietà e del
possesso, non potendo godere la pubblica amministrazione di uno status
privilegiato se non in presenza di poteri esercitati in conformità del
paradigma legale di riferimento.
È, peraltro, evidente che – in mancanza di un idoneo
titolo giuridico che valga a trasferire la proprietà in capo alla pubblica
amministrazione – il privato resta, a fronte della illecita ingerenza,
proprietario del bene, con la conseguenza che può, anzitutto, attivare (a
parte, ovviamente, il risarcimento del danno per il periodo di occupazione) la
tutela restitutoria, previa ripristino dello status quo ante: al
che non può costituire impedimento (una volta venuta meno la “costruzione“
concettuale della occupazione acquisitiva) né la avvenuta trasformazione delle
aree né la realizzazione dell’opera pubblica (quella che, in passato, si
definiva sintomaticamente trasformazione “irreversibile”, che tale era
peraltro, con evidente circuito logico, solo in quanto scattasse il postulato
meccanismo acquisitivo a titolo originario), in quanto, per un verso, il limite
della eccessiva onerosità è codificato, dal’art. 2058 c.c., in relazione alla
tutela risarcitoria (in forma specifica) e non per quella restitutoria (che
trova fondamento negli artt. 948 ss. ed è preordinata alla tutela reale della
proprietà) e, per altro verso, l’ulteriore limite di cui all’art. 2933 c.c.
(relativo alla riduzione in pristino di quanto sia stato realizzato in
violazione dell’obbligo di non fare) si riferisce solo alla ricorrenza di
pregiudizi per l’intera economia nazionale e non a quello “localizzato” (in
termini, da ultimo, Cass. sez. I, 23 agosto 2012, n. 14609).
Per la stessa ragione, di conserva, al privato
dovrebbe, in principio, ritenersi preclusa la tute-la risarcitoria
(naturalmente diversa da quella relativa alla mera occupazione, finché la
stessa sia di fatto durata), difettando – ai fini del riconoscimento del diritto
al rivendicato controvalore venale del bene – il presupposto della perdita
della proprietà (non potendosi, incidentalmente, ritenere – secondo un
ragionamento speciosamente formulato in passato, ma privo di basi ed oggi
espressamente ripudiato non meno dal giudice ordinario che da quello
amministrativo – che la formulazione della domanda risarcitoria implicasse di
per sé l’implicita volontà dismissiva della proprietà, alla stregua di una
sorta di “abbandono liberatorio”).
Una importante e paradossale conseguenza è, allora,
che le domande risarcitorie (anche quelle proposte quando nessuno, né tantomeno
gli odierni ricorrenti, aveva plausibile ragione di dubitare del regime della
occupazione acquisitiva, magari giunte alla attuale cognizione del giudice
amministrativo – oggi attributario, come è noto, della giurisdizione esclusiva
in materia, giusta l’art. 34 del d. lgs. n. 80/98, trasfuso nell’art. 133
c.p.a. – per via di translatio judicii in esito a declinatoria
della giurisdizione, e salva la possibilità di formulare in proposito una
auspicabile emendatio libelli: cfr., in tal senso, Cons. Stato,
sez. IV, 1° giugno 2011, n. 3331) dovrebbero essere senz’altro respinte in
quanto non fondate (per carenza del fatto costitutivo del diritto azionato).
Che è esito, va riconosciuto, nel complesso
indubbiamente insoddisfacente non solo per l’Amministrazione espropriante (che
vede, di fatto, in generale potenzialmente pregiudicato l’interesse pubblico
dalla doverosità ed automaticità della reintegrazione della proprietà privata,
anche in casi di trasformazione delle aree e di avvenuta realizzazione delle
opere pubbliche, potendo solo riattivare ab ovo la procedura
ablatoria), ma anche per lo stesso privato (che, più spesso di quanto non si
possa immaginare, annette in concreto maggior interesse alla pronta
liquida-zione del bene secondo il suo valore venale che al ripristino dellostatus
quo ante e che, in ogni caso, ha potuto ragionevolmente optare,
diversamente da quanto occorso nella fattispecie in esame, per l’attivazione,
in via esclusiva, della via risarcitoria di fatto preclusa da inopinati overruling pretori).
A fronte di ciò, può ritenersi in generale
sostanzialmente appagante l’eventualità (non verificatasi, peraltro, nel caso
di specie nonostante lo spatium deliberandi di fatto concesso
dalla ordinanza collegiale evocata in narrativa) che l’Amministrazione adotti
l’autonomo potere ablatorio codificato dall’art. 42 bis del
t.u. n. 327/2001, in quanto: a) per un verso, la legalità
dell’azione amministrativa viene, in certo modo, “recuperata” dalla creazione
di un (nuovo ed autonomo) titulus adquirendi di natura
provvedimentale, munito di idonea base legale e frutto di doverosa e rigorosa
ponderazione comparativa degli interessi in gioco, complessivamente intesa alla
salvaguardia di quello pubblico concretamente preminente (così superando la
logica, stigmatizzata in sede CEDU, dell’occupazione acquisitiva, che
consentiva l’acquisto in virtù di un mero comportamento di fatto, per di più
concretante fattispecie di illecito); b) per altro verso, si
garantisce al privato una tutela piena e satisfattiva (in prospettiva
dichiaratamente “indennitaria” piuttosto che “risarcitoria”, non trattandosi,
nell’auspicio “ricostruttivo”, per quanto valer possa l’intento qualificatorio
trasfuso nella norma, dei conditores, di non più plausibile
acquisto ex re illicita, come ancora autorizzava a ritenere la
formulazione del previgente art. 43) al conseguimento dell’integrale valore del
bene (per giunta maggiorato – a dire il vero, non senza una sottile
contraddizione “sistematica” – del pregiudizio non patrimoniale forfetizzato,
oltre che, naturalmente, del danno da occupazione), senza neppure precludergli
(in tesi astratta) la possibilità di impugnare (se interessato soprattutto alla
reintegra) il provvedimento.
Il problema si pone, allora, essenzialmente per
l’ipotesi (peraltro praticamente più frequente) di inerzia (o addirittura di
silenzio) dell’ente espropriante: inerzia e silenzio che, per quanto si è
detto, appaiono in grado di condizionare lo spettro delle tutele a disposizione
del privato, di fatto conservandone lo status non sempre
gradito (e, nella specie, addirittura prospetticamente suscettibile di azzerare
le forme di tutela azionate) di proprietario dei beni.
3.- Un primo tentativo di soluzione del problema è
stato offerto da quella giurisprudenza che – muovendosi sul piano schiettamente
civilistico (l’unico, peraltro, possibile in difetto di esercizio di legittime potestà
pubblicistiche): a) o ha ritenuto (così TAR Lecce, sez. I, 24
novembre 2010, n. 2683) che l’irreversibile trasformazione del bene continui a
rappresentare fatto idoneo a far acquistare la proprietà alla pubblica
amministrazione (non già, peraltro, per il principio dell’accessione invertita,
ma in virtù della c.d. specificazione ex art. 940 c.c.,
consistente nella utilizzazione della altrui “materia” per realizzare una
“nuova cosa”): tesi rimasta, peraltro, del tutto isolata, se non altro per il
rilievo che la specificazione, quale modo civilistico di acquisto della
proprietà a titolo originario, si attaglia alle cose mobili e non a quelle
immobili); b) ovvero – con esito del tutto opposto – ha ventilato
l’applicazione della regola (ordinaria e tradizionale) della accessione ex art.
934 c.c., in forza della quale non solo (come è pacifico) il proprietario delle
aree occupate non perde il proprio diritto in conseguenza dell’altrui
ingerenza, ma diventa anche il proprietario degli immobili realizzati sul
proprio suolo: con il che peraltro – del tutto paradossalmente – il privato
sarebbe esposto anche ad un arricchimento “imposto” ed una consequenziale
obbligazione indennitaria a suo danno.
4.- Si è anche formato un orientamento
giurisprudenziale volto, per altra via, ad aggirare la difficoltà ed a
raggiungere comunque l'obiettivo perseguito dal legislatore: già nella vigenza
dell'art. 43 si era, invero, statuito che, a fronte della domanda risarcitoria,
la P.A. avrebbe potuto (al-ternativamente ma doverosamente) pervenire ad un
accordo transattivo ovvero emettere un formale e motivato decreto, con cui
disporre o la restituzione dell'area a suo tempo occupata, previa ripristino
dello status quo ante, ovvero l'acquisizione coattiva: con il che,
in caso di inerzia conseguente al giudicato “ad esito alternativo”,
l'interessato avrebbe potuto chiedere, in sede di ottemperanza, l'esecuzione
della decisione, per la adozione delle misure consequenziali (rientrando nei
poteri del giudice, in tal caso estesi come è noto al merito, la nomina di un
commissario ad acta per l’adozione della scelta più
opportuna): così Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582, seguito, tra le
altre, da TAR Campania Napoli, sez. V, 28 maggio 2009).
È evidente che, in tale prospettiva, il processo
azionato dal privato diventa indirettamente strumento per imporre alla P.A. di
attivarsi per comporre la vicenda, senza ancora pregiudicare le diverse
opzioni, ma sull'implicito presupposto pratico che l'ipotesi della restituzione
rimanga puramente teorica. Perciò, con l’introduzione dell'art. 42 bis,
questo orientamento ha ripreso vigore, specie nella giurisprudenza di prime
cure (ed è stato accolto, per esempio, da questo Tribunale: cfr, in tal senso,
TAR Campania Salerno, sez. II, 11 gennaio 2012, n. 28), puntando, da fatto, più
seccamente sulla ineludibile alternativa tra restituzione e acquisizione
sanante, mentre passano in secondo piano altre soluzioni che erano emerse, come
l'accordo transattivo o la rinnovazione del procedimento espropriativo (la
prima, ovviamente, sempre possibile ma non certo in forza di una statuizione
giudiziaria impositiva di un obbligo, sia pure alternativo, a contrarre, privo,
come tale, di idonea base positiva; la seconda anch’essa, beninteso, sempre
possibile, ma chiaramente disfunzionale ed onerosa, in presenza di una facoltà
acquisitiva autonoma ex art. 42 bis).
Va, peraltro, rammentato come altra impostazione abbia
inteso andare oltre il prospettato esito decisionale, escludendo ogni
alternativa, anche quella della restituzione, e rendendo non più nascosto ma
esplicito e vincolante l'obiettivo di addivenire all'acquisizione: se il
provvedimento di acquisizione è (o si vuole che sia) l'unico modo per sistemare
la vicenda e la P.A. rimane inerte, vorrà dire che a tale provvedimento si
dovrà ineludibilmente pervenire per ordine del giudice, con eventuale esercizio
di poteri sostitutivi in sede di esecuzione: in tal caso l'accoglimento del
ricorso si risolve, direttamente, in una condanna specifica ad adottare il provvedimento
di acquisizione ai sensi dell'art. 42 bis. Con questa sorta di mutatio officiosa
della domanda (peraltro, di dubbia compatibilità con il canone della
corrispondenza tra chiesto e pronunziato ex art. 112 c.p.c.),
la ''sostanza'' cui, iussu proprie iudicis, si perviene è che, da
un lato, si è trasferita la proprietà e si è evitata la restituzione, d'altro
lato, si è concesso indirettamente il risarcimento del danno per equivalente al
privato: il provvedimento di acquisizione contiene infatti ex lege l'indennizzo
per la perdita della proprietà (in tali sensi, tra le altre, TAR Campania
Napoli, Sez. V, 13 gennaio 2012, n. 176, la quale, peraltro, ha “differito”
l’esame della domanda risarcitoria all’esito della adozione del provvedimento
acquisitivo, laddove altro modulo decisionale, seguitointer alia da
T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. II, 23 febbraio 2012, n. 428, , da TAR Lombardia
Brescia, Sez. II, 26 gennaio 2012, n. 115e da TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I,
17 febbraio 2012, n. 195, ritiene “assorbita” la domanda risarcitoria,
sull’assunto che, adottato il provvedimento ex art. 42 bis, la
disputa sul quantum della riconosciuta indennità spetterebbe ad altra sede e,
plausibilmente, ad altra giurisdizione).
L'orientamento in questione e la prospettiva della
condanna a provvedere ex art. 42 bis con-sentono
in realtà, a favore del privato, di superare in radice ogni problematico
rilievo del distinguo tra domanda restitutoria e domanda di risarcimento per
equivalente, poiché, quale che sia l'esatto contenuto della domanda, soltanto
nella suddetta condanna può risolversi il processo. Non a caso, possono
ravvisarsi pronunce che hanno statuito la condanna a provvedere ex art. 42 bisnon
perché mosse dalla necessità di aggirare la domanda restitutoria (concretamente
non inclusa nel petitum immediato), ma a partire dalla mera
azione risarcitoria, pervenuta, magari tramite translatio judicii,
al giudice amministrativo.
Il descritto escamotage giurisprudenziale
(va, invero, onestamente riconosciuto che di questo si tratta) consente,
quindi, di raggiungere l'obiettivo dell'art. 42 bis, con indubbi
vantaggi anche per la tutela effettiva del privato, ma, specialmente nella
versione della condanna specifica e non alternativa all'acquisizione sanante,
al costo di un'interpretazione che porta a dissolvere anche un'apparenza di
conformità ai principi europei: e ciò perché si finisce pregiudizialmente per
escludere sempre e comunque la concessione della (primaria ed indefettibile)
tutela restitutoria.
In tale contesto, una più recente (e, sia pure solo in
parte, alternativa) pronunzia del Consiglio di Stato (la n. 1514 del 16 marzo
2012, resa dalla sez. IV) ha piuttosto (e, c’è da riconoscere, con maggior
“franchezza”) argomentato nel senso: a) che al privato è preclusa
(in assenza di adozione del provvedimento acquisitivo) la tutela risarcitoria,
in quanto anche l’irreversibile trasformazione delle aree non determina, come
ampiamente chiarito, la perdita del diritto di proprietà; b)
nondimeno – e qui sta la novità della pronuncia – neppure può darsi luogo
(quando, ovviamente, richiesta) alla tutela restitutoria: la quale, in
thesi, eliderebbe di per sé ed automaticamente il potere (discrezionale e
non conculcabile) di acquisizione sanante ex art. 42 bis (non
esistendo più la c.d. acquisizione giudiziale consentita dal previgente art.
43, che autorizzava l’Amministrazione ad invocare ope exceptionis la
limitazione della domanda alla erogazione del risarcimento del danno, nella
prospettiva della futura e “preannunziata” determinazione acquisitiva); c)
di conseguenza la domanda (comunque formulata) è ritenuta accoglibile (avuto
riguardo al c.d. principio di atipicità scolpito dall’art. 34 c.p.a.) nei (soli)
sensi dalla condanna all’obbligo generico di provvedere ex art.
42 bis, restando impregiudicata la scelta discrezionale tra
acquisizione sanante (unita al ristoro per la perdita della proprietà e per il
periodo di occupazione illegittima) e restituzione (preceduta dalla restitutio
in integrum e dal ristoro del solo periodo di occupazione
illegittima). Insomma: da un lato, l'accoglimento della mera azione
risarcitoria si scontra con il mancato trasferimento della proprietà, d'altro
lato, l'art. 42 bis avrebbe inequivocabilmente attribuito alla
P.A. il potere discrezionale, valutati gli interessi in conflitto, di pervenire
o meno al provvedimento di acquisizione, e siffatto potere (peraltro non già
facoltativo, nella consueta guisa del procedimenti di secondo grado orientati
alla sanatoria, sibbene doveroso nell’an giusta il principio
generale scolpito all’art. 2 della l. n. 241/1990, in quanto preordinato alla
salvaguardia, in prospettiva comparativa, di rilevanti interessi delle
controparti private) non potrebbe essere preventivamente intaccato e vanificato
(stante l’attuale impossibilità, a differenza del previgente art. 43, di
attivazione post litem judicatam) da un vincolo giurisdizionale
conseguente all’accoglimento della domanda restitutoria (né – è da precisare –
da una condanna a provvedere tout court all’adozione del provvedimento
acquisitivo, che lederebbe e pregiudicherebbe in altra direzione la
discrezionalità della P.A. di scegliere, valutati gli interessi in conflitto,
tra acquisizione e restituzione del bene).
La soluzione de qua (per quanto non
esente da perplessità, di fatto disconoscendosi la tutela restitutoria nella
immediatezza della sua sede naturale, id est nel giudizio di
cognizione, di fatto condizionato dal successivo ed eventuale esercizio del
potere amministrativo di acquisizione) ha trovato nondimeno apprezzamento in
dottrina, poiché attenua, in qualche misura, il conflitto con i principi della
CEDU, lasciando quantomeno ''astrattamente'' aperta la porta alla possibilità
della restituzione. Anche se – si è criticamente osservato non senza qualche
ragione – non deve dimenticarsi che nel nuovo art. 42 bis non
è stata, come si ripete, riprodotta la facoltà processuale della P.A. di
paralizzare la restituzione (di cui all'originario art. 43), proprio per
ragioni di compatibilità con i principi europei, risultando così alquanto
paradossale che si evochi proprio l'art. 42 bis per pervenire
ad un opposto e ancor più estremo risultato, cioè di un'azione restitutoria che ex
lege viene paralizzata d'ufficio dal giudice. Perplessità, come è
ovvio, che non può sorgere quando la domanda sia formulata in termini
risarcitori.
Va da sé, sulle esposte coordinate dogmatiche, che
(una volta ritenuta, nei chiariti sensi, la “doverosità” di attivazione del
procedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis) sarebbe
preferibile strutturare recta via la tutela del privato nei
sensi della condanna (pura) a provvedere, nelle forme del rito avverso il
silenzio (in tal senso, per esempio, TAR Campania Napoli, sez. V, 11 gennaio
2012, n. 86, confermata da Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2012, n. 5207): il risultato
— condanna generica a provvedere — è ovviamente del tutto identico a quello
scaturente dall’orientamento precedente, ma con ulteriori apprezzabili
conseguenze sia per il privato, sia per la stessa P.A: a) dal punto
di vista del privato, vi sono palesi vantaggi sui “'tempi” di definizione della
vicenda (non essendo anzitutto da escludere che la P.A., sollecitata
dall'istanza, decida senz’altro di provvedere, ed in ogni caso, di fronte
all'inerzia, si potrà ottenere quel risultato della condanna generica a
provvedere attraverso il rito “acceleratorio” del silenzio, in luogo delle
lungaggini di un'azione risarcitoria); b) per la stessa P.A., non è
certo trascurabile che l'indotto accorciamento dei “tempi” eviterà un
aggravamento degli oneri risarcitori per l'occupazione illegittima, interrotta
dalla restituzione, che fa venir meno l'occupazione stessa, o dal provvedimento
di acquisizione, che ne fa venir meno l'illegittimità; c) in ogni
caso, nell'ottica europea, si toglierebbe la giurisprudenza dall'imbarazzo di
non poter direttamente accogliere le azioni restitutorie o di dover affermare,
come l’orientamento illustrato precedentemente, che il giudice non può elidere
il potere amministrativo di decidere o meno l'acquisizione del bene (e ciò in
quanto la questione dell'esercizio di siffatto potere non costituirebbe più un
impedimento paralizzante nel momento della tutela processuale dell'azione del
proprietario, ma si consumerebbe a monte e in un percorso prima amministrativo
e poi processuale, quello del silenzio, dall'oggetto limitato, che rimane
estraneo formalmente all'esperimento in via principale della tutela dominicale,
per quanto nella ''sostanza'' indirettamente già idoneo a soddisfare la pretesa
risarcitoria o restitutoria).
La dottrina si è addirittura spinta a prospettare (ed
auspicare) de jure condendo (pur nella consapevolezza della
sua problematicità anche in termini costituzionali, trattandosi in tesi di
strutturare tutele c.d. condizionate) l’introduzione del previo esperimento
dell'istanza a provvedere ex art. 42 bis e dell'eventuale
tutela giurisdizionale avverso il silenzio quali condizioni di procedi-bilità
delle domande risarcitorie e/o restitutorie.
5.- Tutto ciò premesso, va peraltro esaminata – sia in
quanto espressamente formulata da parte resistente al preordinato fine di
argomentare l’infondatezza della domanda risarcitoria formulata ex
adverso, sia in quanto prospetticamente idonea ad evocare, ove fondata,
ragione pregiudizialmente preclusiva, in presenza di idoneo titulus
adquirendi originario a favore dell’Amministrazione, dell’esercizio
del potere acquisitivo ex art. 42 bis T.U. n. 327/2001, stante
la correlata carenza del relativo presupposto dell’alienità del bene ad
acquisirsi (cfr., da ultimo, Cass., sez. I, 4 luglio 2012, n. 11147, riferita
ad un caso di occupazione usurpativa ma con argomento generalizzabile) –
l’eccezione intesa a valorizzare l’intervenuta usucapione delle aree oggetto del
contestato intervento, che sarebbe maturata a favore dell’Amministrazione
espropriante in virtù del possesso ultraventennale, non idoneamente interrotto
da opportune e tempestive iniziative giudiziali in funzione recuperatoria.
L’eccezione di intervenuta usucapione (che questo
giudice può accertare in via incidentale ex art. 8 c.p.a,. in
quanto logicamente concretante questione pregiudiziale) è fondata.
Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente
valida non seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di esproprio,
il decorso del termine ventennale utilead usucapionem prende avvio
solo dal momento in cui l’occupazione diventa contra legem, con il
decorso del termine quinquennale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 8 ottobre
2012, n. 4030 e TAR Salerno, sez. II, 9 luglio 2012, n. 1374): nella specie, a
far data dal 15 marzo 1988 (con maturazione al 15 marzo 2008);
b) che, ai fini interruttivi, appaiono
idonee (in virtù del combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.)
esclusivamente iniziative giudiziali in funzione recuperatoria del possesso, e
non già intese alla mera condanna al risarcimento del danno: cfr., in termini,
Cass. SS.UU. 19 ottobre 2011, n. 21575, proprio argomentando dalla possibilità,
per il privato, di attivarsi nel senso della reintegrazione del possesso
indipendentemente dalla (non rilevante) trasformazione del bene ablato: con il
che, nel caso di specie, non può dirsi giovevole alla ricorrente l’azione
risarcitoria in concreto attivata dinanzi al giudice ordinario, con citazione
notificata il 23 novembre 1999, conclusasi con statuizione declinatoria della
giurisdizione depositata in data 16 settembre 2002, versata in atti;
c) che, per comune intendimento, la
maturata usucapione (della quale ricorrono, in concreto, tutti i presupposti,
avuto segnatamente riguardo al possesso ultraventennale non interrotto) fa
venir meno (non soltanto, come è ovvio, la facoltà di esperire le tutele reali
e recuperatorie, stante la correlativa perdita della situazione dominicale, ma
anche) l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria (nonché, deve
ritenersi, di quella indennitaria), consistente nell'illiceità della condotta
lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il periodo
successivo al decorso del termine, ma anche per quello anteriore, in virtù
della retroattività degli effetti dell'acquisto, stabilita per garantire, alla
scadenza del termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse
all'adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto (cfr. Cass., 19
ottobre 2011, n. 21575; Cass.. sez. III. 26 giugno 2008, n. 17570; Cass. 8
settembre 2006, n. 19294; merita, peraltro, soggiungere che la soluzione sul
punto non potrebbe essere diversa anche ad accogliere il minoritario
orientamento, essenzialmente dottrinario, inteso ad argomentare
l’irretroattività dell’effetto acquisitivo conseguente alla maturata
usucapione);
d) che neppure, del resto, risulta
concretamente possibile, ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad
esito alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento ex art.
42 bis del T.U. n. 327/2001 (giusta la regola decisoria
prospettata in subiecta materia da Cons. Stato, sez. IV, 16
marzo 2012, n. 1514 sull’assunto della doverosità nell’an della
attivazione del relativo procedimento), per la preclusiva ragione che
l’usucapione costituisce già autonomo titolo di acquisto della proprietà e non
potrebbe, con ogni evidenza, procedersi all’acquisto di cosa propria (Cass.,
sez. I, 4 luglio 2012, n. 11147).
6.- Discende dal complesso delle esposte
considerazioni che – essendo preclusa, in presenza di avvenuta usucapione, vuoi
la via risarcitoria che quella restitutoria, non meno che (a differenza di quel
che accade nell’ipotesi “ordinaria”) l’attivazione del processo di acquisizione
sanante – la domanda articolata debba essere necessariamente respinta.
Le obiettive incertezze della vicenda sostanziale
dedotta in giudizio – aggravate dai mutamenti degli orientamenti
giurisprudenziali e dalla modifica nel tempo del quadro normativo di
riferimento – impone l’integrale compensazione delle spese e competenze di
lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in
epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del
giorno 8 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:
Antonio Onorato, Presidente
Giovanni Grasso, Consigliere, Estensore
Ezio Fedullo, Consigliere
L'ESTENSORE
|
IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 31/01/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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