lunedì 22 luglio 2013

ESPROPRIAZIONE P.U.: ricorso avverso il silenzio-inadempimento in caso di inerzia sull'art. 42-"bis" del d.P.R. n. 327/01 (T.A.R. Campania, Salerno, sentenza 31 gennaio 2013 n. 298).


ESPROPRIAZIONE P.U.: 
ricorso avverso il silenzio-inadempimento 
in caso di inerzia sull'art. 42-"bis" del d.P.R. n. 327/01 
(T.A.R. Campania, Salerno, 
sentenza 31 gennaio 2013 n. 298)
a cura del Dott. Massimo Mazzola


Massima

A fronte di occupazione acquisitiva di un immobile di proprietà privata da parte della P.A., qualora quest'ultima non avvii ex se il procedimento di cui all'art. 42-bis di cui al d.P.R. n. 327/2001, il ricorrente dovrà esperire il ricorso avverso il silenzio-inadempimento, al fine di sentir condannare la P.A. rimasta inerte a provvedere.


Sentenza per esteso

INTESTAZIONE
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 331 del 2009, proposto da:
Maria D'Alessio, nella qualità di procuratrice di Antonietta e Clementina Parisirappresentato e difeso dall'avv. Vincenzo Esposito, con domicilio eletto presso Luciano Bello in Salerno, alla via Margherita da Durazzo, n. 1; 
contro
Comune di Calabritto, in persona del Sindaco in carica pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Rizzo, con domicilio eletto in Salerno, al corso Vittorio Emanuele, n. 127; 
per la condanna
a) al pagamento, previa declaratoria di illegittimità del procedimento di esproprio, dell’indennità di occupazione legittima, per il tempo in cui la stessa è stata assistita da un valido decreto di occupazione e, dunque, dal 15 marzo 1983 al 15 marzo 1988, oltre interessi legali sulla somma che sarebbe spettata a titolo di esproprio per ciascun anno di occupazione; b) al risarcimento del danno da occupazione sine titulo, a far data dal termine finale di validità ed efficacia del decreto di occupazione (15 marzo 1988) fino all’effettivo soddisfo, secondo i criteri legali di cui all’art. 43, sesto comma, d.p.r. n. 327/2001, c) al pagamento di spese, competenze ed onorari di causa, oltre accessori come per legge, con clausola di attribuzione.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Calabritto in Persona del Sindaco P.T.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 novembre 2012 il dott. Giovanni Grasso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
1.- Con ricorso notificato in data 2 febbraio 2009 e ritualmente depositato il 16 febbraio successivo, Maria D’Alessio, nella documentata qualità di procuratrice generale e speciale di Antonietta e Clementina Parisi, ha evocato in giudizio il Comune di Calabritto per sentirlo condannare: a) al pagamento, in proprio favore, dell’indennità di occupazione legittima delle aree di proprietà oggetto del decreto in data 15 marzo 1983 prot.n. 1108 (erroneamente denominato decreto di esproprio), per il periodo dal 15 marzo 1983 al 15 marzo 1988, oltre interessi legali sulla somma che sarebbe spettata a titolo di esproprio per ciascun anno di occupazione; b) al risarcimento del danno da occupazione sine titulo, a far data dal termine finale di validità ed efficacia del decreto di occupazione (15 marzo 1988), asseritamente non seguito da idoneo titolo ablatorio, fino all’effettivo soddisfo, secondo i criteri legali ; c) al pagamento di spese, competenze ed onorari di causa, oltre accessori come per legge, con clausola di attribuzione al difensore costituito.
2.- Si costituiva in giudizio l’intimata Amministrazione, la quale: a) in via preliminare ventilava il difetto di giurisdizione dell’adito giudicante; b) eccepiva, nel merito, l’intervenuta prescrizione dell’azione risarcitoria per decorrenza del termine quinquennale in tesi decorrente dalla data di irreversibile trasformazione delle aree interessate dall’occupazione; c) deduceva, in ogni caso, l’intervenuta usucapione delle stesse per decorso dell’ininterrotto termine ventennale di possesso; d) argomentava, comunque, la ritualità della procedura seguita dall’Amministrazione, sull’assunto che il gravato decreto del 1983 avrebbe dovuto essere effettivamente inquadrato come decreto di esproprio; e) invocava, per tal via, la complessiva reiezione del ricorso.
3.- Con ordinanza resa alla pubblica udienza del 19 gennaio 2012, il Collegio disponeva – a presa d’atto della sopravvenuta entrata in vigore della disciplina di cui all’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, introdotto dall’art. 34 d.l. n. 98/2011 e di immediata applicazione in re – la rimessione della causa sul ruolo ex art. 73, 3° comma c.p.a., al fine di sollecitare il contraddittorio sul punto.
Alla pubblica udienza dell’8 novembre 2012, sulle reiterate conclusioni dei difensori delle parti costituite, la causa veniva riservata per la decisione.

DIRITTO
1. Il ricorso è, nei sensi delle considerazioni che seguono, infondato e merita di essere correlativamente respinto.
Va, liminarmente, respinta l’articolata eccezione di difetto di giurisdizione alla luce del consolidato orientamento che attribuisce alla giurisdizione amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a., e che solo per accidenti successivi - come avviene anche per l'ipotesi di successivo annullamento giurisdizionale degli atti ablatori - hanno perso la propria connotazione eminentemente pubblicistica (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 28 novembre 2012, n. 6012 e già Cons. Stato, Ad. Pl., 22 ottobre 2007, n. 12).
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa, per spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad ottenere il riconoscimento degli indennizzi per il periodo di occupazione legittima in relazione alla quale continua a valere a tutti gli effetti la riserva disposta dall'art. 53 comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1, lett. g, c.p.a.): in termini, da ultimo T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 14 giugno 2012, n. 2831.
2.- In termini generale, giova premettere che la controversia in esame attiene alla vexata quaestio della tutela del privato in presenza di occupazioni che, per quanto in origine legittime, siano divenute sine titulo per mancata adozione, nei termini di legge, di rituale misura ablatoria.
Va osservato, sul punto, che i percorsi di tutela della proprietà privata a fronte dell’illegittimo esercizio del potere espropriativo – oscillanti tra azione restitutoria,azione risarcitoria per equivalente e (attualmente) potere pubblicistico di acquisizione sanante ai sensi del vigente art. 42 bis del t.u. n. 327/2001 – sono oggetto (anche, vale soggiungere, indipendentemente dai persistenti dubbi di compatibilità costituzionale e di conformità alla convenzione EDU del citato art. 42 bis, che Cons. Stato, sez. IV, 27 gennaio 2012, n. 427 ha, peraltro, inteso senz’altro fugare) di perdurante dibattito dottrinale e di non sopiti contrasti giurisprudenziali.
I punti di partenza della questione sono, alquanto paradossalmente, del tutto perspicui:
a) la c.d. occupazione appropriativa per trasformazione irreversibile dell'immobile, come modo di acquisto della proprietà a titolo originario, fondato sul principio della accessione c.d. invertita mutuato per analogia dall’art. 938 c.c., dopo una (fin troppo nota e travagliata) vicenda segnata dal progressivo affinamento del formante giurisprudenziale, è stata ormai inesorabilmente espunta dal nostro ordinamento, in virtù delle reiterate e decisive pronunzie della Corte di Strasburgo (v., in termini perspicui, Cons. Stato, ad. plen., 29 aprile 2005, n. 2, cui giova complessivamente rinviare);
b) di conseguenza, ricondotta la vicenda della occupazione illegittima ad una “ordinaria” ipotesi di illecita ingerenza nella sfera dominicale altrui, al proprietario leso spetteranno (ove si prescinda, per un momento, dalla già ventilata possibilità che l’ente espropriante eserciti il distinto potere di cui all’attuale art. 42 bis, di cui si dirà) tutte le ordinarie azioni a difesa della proprietà e del possesso, non potendo godere la pubblica amministrazione di uno status privilegiato se non in presenza di poteri esercitati in conformità del paradigma legale di riferimento.
È, peraltro, evidente che – in mancanza di un idoneo titolo giuridico che valga a trasferire la proprietà in capo alla pubblica amministrazione – il privato resta, a fronte della illecita ingerenza, proprietario del bene, con la conseguenza che può, anzitutto, attivare (a parte, ovviamente, il risarcimento del danno per il periodo di occupazione) la tutela restitutoria, previa ripristino dello status quo ante: al che non può costituire impedimento (una volta venuta meno la “costruzione“ concettuale della occupazione acquisitiva) né la avvenuta trasformazione delle aree né la realizzazione dell’opera pubblica (quella che, in passato, si definiva sintomaticamente trasformazione “irreversibile”, che tale era peraltro, con evidente circuito logico, solo in quanto scattasse il postulato meccanismo acquisitivo a titolo originario), in quanto, per un verso, il limite della eccessiva onerosità è codificato, dal’art. 2058 c.c., in relazione alla tutela risarcitoria (in forma specifica) e non per quella restitutoria (che trova fondamento negli artt. 948 ss. ed è preordinata alla tutela reale della proprietà) e, per altro verso, l’ulteriore limite di cui all’art. 2933 c.c. (relativo alla riduzione in pristino di quanto sia stato realizzato in violazione dell’obbligo di non fare) si riferisce solo alla ricorrenza di pregiudizi per l’intera economia nazionale e non a quello “localizzato” (in termini, da ultimo, Cass. sez. I, 23 agosto 2012, n. 14609).
Per la stessa ragione, di conserva, al privato dovrebbe, in principio, ritenersi preclusa la tute-la risarcitoria (naturalmente diversa da quella relativa alla mera occupazione, finché la stessa sia di fatto durata), difettando – ai fini del riconoscimento del diritto al rivendicato controvalore venale del bene – il presupposto della perdita della proprietà (non potendosi, incidentalmente, ritenere – secondo un ragionamento speciosamente formulato in passato, ma privo di basi ed oggi espressamente ripudiato non meno dal giudice ordinario che da quello amministrativo – che la formulazione della domanda risarcitoria implicasse di per sé l’implicita volontà dismissiva della proprietà, alla stregua di una sorta di “abbandono liberatorio”).
Una importante e paradossale conseguenza è, allora, che le domande risarcitorie (anche quelle proposte quando nessuno, né tantomeno gli odierni ricorrenti, aveva plausibile ragione di dubitare del regime della occupazione acquisitiva, magari giunte alla attuale cognizione del giudice amministrativo – oggi attributario, come è noto, della giurisdizione esclusiva in materia, giusta l’art. 34 del d. lgs. n. 80/98, trasfuso nell’art. 133 c.p.a. – per via di translatio judicii in esito a declinatoria della giurisdizione, e salva la possibilità di formulare in proposito una auspicabile emendatio libelli: cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 1° giugno 2011, n. 3331) dovrebbero essere senz’altro respinte in quanto non fondate (per carenza del fatto costitutivo del diritto azionato).
Che è esito, va riconosciuto, nel complesso indubbiamente insoddisfacente non solo per l’Amministrazione espropriante (che vede, di fatto, in generale potenzialmente pregiudicato l’interesse pubblico dalla doverosità ed automaticità della reintegrazione della proprietà privata, anche in casi di trasformazione delle aree e di avvenuta realizzazione delle opere pubbliche, potendo solo riattivare ab ovo la procedura ablatoria), ma anche per lo stesso privato (che, più spesso di quanto non si possa immaginare, annette in concreto maggior interesse alla pronta liquida-zione del bene secondo il suo valore venale che al ripristino dellostatus quo ante e che, in ogni caso, ha potuto ragionevolmente optare, diversamente da quanto occorso nella fattispecie in esame, per l’attivazione, in via esclusiva, della via risarcitoria di fatto preclusa da inopinati overruling pretori).
A fronte di ciò, può ritenersi in generale sostanzialmente appagante l’eventualità (non verificatasi, peraltro, nel caso di specie nonostante lo spatium deliberandi di fatto concesso dalla ordinanza collegiale evocata in narrativa) che l’Amministrazione adotti l’autonomo potere ablatorio codificato dall’art. 42 bis del t.u. n. 327/2001, in quanto: a) per un verso, la legalità dell’azione amministrativa viene, in certo modo, “recuperata” dalla creazione di un (nuovo ed autonomo) titulus adquirendi di natura provvedimentale, munito di idonea base legale e frutto di doverosa e rigorosa ponderazione comparativa degli interessi in gioco, complessivamente intesa alla salvaguardia di quello pubblico concretamente preminente (così superando la logica, stigmatizzata in sede CEDU, dell’occupazione acquisitiva, che consentiva l’acquisto in virtù di un mero comportamento di fatto, per di più concretante fattispecie di illecito); b) per altro verso, si garantisce al privato una tutela piena e satisfattiva (in prospettiva dichiaratamente “indennitaria” piuttosto che “risarcitoria”, non trattandosi, nell’auspicio “ricostruttivo”, per quanto valer possa l’intento qualificatorio trasfuso nella norma, dei conditores, di non più plausibile acquisto ex re illicita, come ancora autorizzava a ritenere la formulazione del previgente art. 43) al conseguimento dell’integrale valore del bene (per giunta maggiorato – a dire il vero, non senza una sottile contraddizione “sistematica” – del pregiudizio non patrimoniale forfetizzato, oltre che, naturalmente, del danno da occupazione), senza neppure precludergli (in tesi astratta) la possibilità di impugnare (se interessato soprattutto alla reintegra) il provvedimento.
Il problema si pone, allora, essenzialmente per l’ipotesi (peraltro praticamente più frequente) di inerzia (o addirittura di silenzio) dell’ente espropriante: inerzia e silenzio che, per quanto si è detto, appaiono in grado di condizionare lo spettro delle tutele a disposizione del privato, di fatto conservandone lo status non sempre gradito (e, nella specie, addirittura prospetticamente suscettibile di azzerare le forme di tutela azionate) di proprietario dei beni.
3.- Un primo tentativo di soluzione del problema è stato offerto da quella giurisprudenza che – muovendosi sul piano schiettamente civilistico (l’unico, peraltro, possibile in difetto di esercizio di legittime potestà pubblicistiche): a) o ha ritenuto (così TAR Lecce, sez. I, 24 novembre 2010, n. 2683) che l’irreversibile trasformazione del bene continui a rappresentare fatto idoneo a far acquistare la proprietà alla pubblica amministrazione (non già, peraltro, per il principio dell’accessione invertita, ma in virtù della c.d. specificazione ex art. 940 c.c., consistente nella utilizzazione della altrui “materia” per realizzare una “nuova cosa”): tesi rimasta, peraltro, del tutto isolata, se non altro per il rilievo che la specificazione, quale modo civilistico di acquisto della proprietà a titolo originario, si attaglia alle cose mobili e non a quelle immobili); b) ovvero – con esito del tutto opposto – ha ventilato l’applicazione della regola (ordinaria e tradizionale) della accessione ex art. 934 c.c., in forza della quale non solo (come è pacifico) il proprietario delle aree occupate non perde il proprio diritto in conseguenza dell’altrui ingerenza, ma diventa anche il proprietario degli immobili realizzati sul proprio suolo: con il che peraltro – del tutto paradossalmente – il privato sarebbe esposto anche ad un arricchimento “imposto” ed una consequenziale obbligazione indennitaria a suo danno.
4.- Si è anche formato un orientamento giurisprudenziale volto, per altra via, ad aggirare la difficoltà ed a raggiungere comunque l'obiettivo perseguito dal legislatore: già nella vigenza dell'art. 43 si era, invero, statuito che, a fronte della domanda risarcitoria, la P.A. avrebbe potuto (al-ternativamente ma doverosamente) pervenire ad un accordo transattivo ovvero emettere un formale e motivato decreto, con cui disporre o la restituzione dell'area a suo tempo occupata, previa ripristino dello status quo ante, ovvero l'acquisizione coattiva: con il che, in caso di inerzia conseguente al giudicato “ad esito alternativo”, l'interessato avrebbe potuto chiedere, in sede di ottemperanza, l'esecuzione della decisione, per la adozione delle misure consequenziali (rientrando nei poteri del giudice, in tal caso estesi come è noto al merito, la nomina di un commissario ad acta per l’adozione della scelta più opportuna): così Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582, seguito, tra le altre, da TAR Campania Napoli, sez. V, 28 maggio 2009).
È evidente che, in tale prospettiva, il processo azionato dal privato diventa indirettamente strumento per imporre alla P.A. di attivarsi per comporre la vicenda, senza ancora pregiudicare le diverse opzioni, ma sull'implicito presupposto pratico che l'ipotesi della restituzione rimanga puramente teorica. Perciò, con l’introduzione dell'art. 42 bis, questo orientamento ha ripreso vigore, specie nella giurisprudenza di prime cure (ed è stato accolto, per esempio, da questo Tribunale: cfr, in tal senso, TAR Campania Salerno, sez. II, 11 gennaio 2012, n. 28), puntando, da fatto, più seccamente sulla ineludibile alternativa tra restituzione e acquisizione sanante, mentre passano in secondo piano altre soluzioni che erano emerse, come l'accordo transattivo o la rinnovazione del procedimento espropriativo (la prima, ovviamente, sempre possibile ma non certo in forza di una statuizione giudiziaria impositiva di un obbligo, sia pure alternativo, a contrarre, privo, come tale, di idonea base positiva; la seconda anch’essa, beninteso, sempre possibile, ma chiaramente disfunzionale ed onerosa, in presenza di una facoltà acquisitiva autonoma ex art. 42 bis).
Va, peraltro, rammentato come altra impostazione abbia inteso andare oltre il prospettato esito decisionale, escludendo ogni alternativa, anche quella della restituzione, e rendendo non più nascosto ma esplicito e vincolante l'obiettivo di addivenire all'acquisizione: se il provvedimento di acquisizione è (o si vuole che sia) l'unico modo per sistemare la vicenda e la P.A. rimane inerte, vorrà dire che a tale provvedimento si dovrà ineludibilmente pervenire per ordine del giudice, con eventuale esercizio di poteri sostitutivi in sede di esecuzione: in tal caso l'accoglimento del ricorso si risolve, direttamente, in una condanna specifica ad adottare il provvedimento di acquisizione ai sensi dell'art. 42 bis. Con questa sorta di mutatio officiosa della domanda (peraltro, di dubbia compatibilità con il canone della corrispondenza tra chiesto e pronunziato ex art. 112 c.p.c.), la ''sostanza'' cui, iussu proprie iudicis, si perviene è che, da un lato, si è trasferita la proprietà e si è evitata la restituzione, d'altro lato, si è concesso indirettamente il risarcimento del danno per equivalente al privato: il provvedimento di acquisizione contiene infatti ex lege l'indennizzo per la perdita della proprietà (in tali sensi, tra le altre, TAR Campania Napoli, Sez. V, 13 gennaio 2012, n. 176, la quale, peraltro, ha “differito” l’esame della domanda risarcitoria all’esito della adozione del provvedimento acquisitivo, laddove altro modulo decisionale, seguitointer alia da T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. II, 23 febbraio 2012, n. 428, , da TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 26 gennaio 2012, n. 115e da TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 17 febbraio 2012, n. 195, ritiene “assorbita” la domanda risarcitoria, sull’assunto che, adottato il provvedimento ex art. 42 bis, la disputa sul quantum della riconosciuta indennità spetterebbe ad altra sede e, plausibilmente, ad altra giurisdizione).
L'orientamento in questione e la prospettiva della condanna a provvedere ex art. 42 bis con-sentono in realtà, a favore del privato, di superare in radice ogni problematico rilievo del distinguo tra domanda restitutoria e domanda di risarcimento per equivalente, poiché, quale che sia l'esatto contenuto della domanda, soltanto nella suddetta condanna può risolversi il processo. Non a caso, possono ravvisarsi pronunce che hanno statuito la condanna a provvedere ex art. 42 bisnon perché mosse dalla necessità di aggirare la domanda restitutoria (concretamente non inclusa nel petitum immediato), ma a partire dalla mera azione risarcitoria, pervenuta, magari tramite translatio judicii, al giudice amministrativo.
Il descritto escamotage giurisprudenziale (va, invero, onestamente riconosciuto che di questo si tratta) consente, quindi, di raggiungere l'obiettivo dell'art. 42 bis, con indubbi vantaggi anche per la tutela effettiva del privato, ma, specialmente nella versione della condanna specifica e non alternativa all'acquisizione sanante, al costo di un'interpretazione che porta a dissolvere anche un'apparenza di conformità ai principi europei: e ciò perché si finisce pregiudizialmente per escludere sempre e comunque la concessione della (primaria ed indefettibile) tutela restitutoria.
In tale contesto, una più recente (e, sia pure solo in parte, alternativa) pronunzia del Consiglio di Stato (la n. 1514 del 16 marzo 2012, resa dalla sez. IV) ha piuttosto (e, c’è da riconoscere, con maggior “franchezza”) argomentato nel senso: a) che al privato è preclusa (in assenza di adozione del provvedimento acquisitivo) la tutela risarcitoria, in quanto anche l’irreversibile trasformazione delle aree non determina, come ampiamente chiarito, la perdita del diritto di proprietà; b) nondimeno – e qui sta la novità della pronuncia – neppure può darsi luogo (quando, ovviamente, richiesta) alla tutela restitutoria: la quale, in thesi, eliderebbe di per sé ed automaticamente il potere (discrezionale e non conculcabile) di acquisizione sanante ex art. 42 bis (non esistendo più la c.d. acquisizione giudiziale consentita dal previgente art. 43, che autorizzava l’Amministrazione ad invocare ope exceptionis la limitazione della domanda alla erogazione del risarcimento del danno, nella prospettiva della futura e “preannunziata” determinazione acquisitiva); c) di conseguenza la domanda (comunque formulata) è ritenuta accoglibile (avuto riguardo al c.d. principio di atipicità scolpito dall’art. 34 c.p.a.) nei (soli) sensi dalla condanna all’obbligo generico di provvedere ex art. 42 bis, restando impregiudicata la scelta discrezionale tra acquisizione sanante (unita al ristoro per la perdita della proprietà e per il periodo di occupazione illegittima) e restituzione (preceduta dalla restitutio in integrum e dal ristoro del solo periodo di occupazione illegittima). Insomma: da un lato, l'accoglimento della mera azione risarcitoria si scontra con il mancato trasferimento della proprietà, d'altro lato, l'art. 42 bis avrebbe inequivocabilmente attribuito alla P.A. il potere discrezionale, valutati gli interessi in conflitto, di pervenire o meno al provvedimento di acquisizione, e siffatto potere (peraltro non già facoltativo, nella consueta guisa del procedimenti di secondo grado orientati alla sanatoria, sibbene doveroso nell’an giusta il principio generale scolpito all’art. 2 della l. n. 241/1990, in quanto preordinato alla salvaguardia, in prospettiva comparativa, di rilevanti interessi delle controparti private) non potrebbe essere preventivamente intaccato e vanificato (stante l’attuale impossibilità, a differenza del previgente art. 43, di attivazione post litem judicatam) da un vincolo giurisdizionale conseguente all’accoglimento della domanda restitutoria (né – è da precisare – da una condanna a provvedere tout court all’adozione del provvedimento acquisitivo, che lederebbe e pregiudicherebbe in altra direzione la discrezionalità della P.A. di scegliere, valutati gli interessi in conflitto, tra acquisizione e restituzione del bene).
La soluzione de qua (per quanto non esente da perplessità, di fatto disconoscendosi la tutela restitutoria nella immediatezza della sua sede naturale, id est nel giudizio di cognizione, di fatto condizionato dal successivo ed eventuale esercizio del potere amministrativo di acquisizione) ha trovato nondimeno apprezzamento in dottrina, poiché attenua, in qualche misura, il conflitto con i principi della CEDU, lasciando quantomeno ''astrattamente'' aperta la porta alla possibilità della restituzione. Anche se – si è criticamente osservato non senza qualche ragione – non deve dimenticarsi che nel nuovo art. 42 bis non è stata, come si ripete, riprodotta la facoltà processuale della P.A. di paralizzare la restituzione (di cui all'originario art. 43), proprio per ragioni di compatibilità con i principi europei, risultando così alquanto paradossale che si evochi proprio l'art. 42 bis per pervenire ad un opposto e ancor più estremo risultato, cioè di un'azione restitutoria che ex lege viene paralizzata d'ufficio dal giudice. Perplessità, come è ovvio, che non può sorgere quando la domanda sia formulata in termini risarcitori.
Va da sé, sulle esposte coordinate dogmatiche, che (una volta ritenuta, nei chiariti sensi, la “doverosità” di attivazione del procedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis) sarebbe preferibile strutturare recta via la tutela del privato nei sensi della condanna (pura) a provvedere, nelle forme del rito avverso il silenzio (in tal senso, per esempio, TAR Campania Napoli, sez. V, 11 gennaio 2012, n. 86, confermata da Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2012, n. 5207): il risultato — condanna generica a provvedere — è ovviamente del tutto identico a quello scaturente dall’orientamento precedente, ma con ulteriori apprezzabili conseguenze sia per il privato, sia per la stessa P.A: a) dal punto di vista del privato, vi sono palesi vantaggi sui “'tempi” di definizione della vicenda (non essendo anzitutto da escludere che la P.A., sollecitata dall'istanza, decida senz’altro di provvedere, ed in ogni caso, di fronte all'inerzia, si potrà ottenere quel risultato della condanna generica a provvedere attraverso il rito “acceleratorio” del silenzio, in luogo delle lungaggini di un'azione risarcitoria); b) per la stessa P.A., non è certo trascurabile che l'indotto accorciamento dei “tempi” eviterà un aggravamento degli oneri risarcitori per l'occupazione illegittima, interrotta dalla restituzione, che fa venir meno l'occupazione stessa, o dal provvedimento di acquisizione, che ne fa venir meno l'illegittimità; c) in ogni caso, nell'ottica europea, si toglierebbe la giurisprudenza dall'imbarazzo di non poter direttamente accogliere le azioni restitutorie o di dover affermare, come l’orientamento illustrato precedentemente, che il giudice non può elidere il potere amministrativo di decidere o meno l'acquisizione del bene (e ciò in quanto la questione dell'esercizio di siffatto potere non costituirebbe più un impedimento paralizzante nel momento della tutela processuale dell'azione del proprietario, ma si consumerebbe a monte e in un percorso prima amministrativo e poi processuale, quello del silenzio, dall'oggetto limitato, che rimane estraneo formalmente all'esperimento in via principale della tutela dominicale, per quanto nella ''sostanza'' indirettamente già idoneo a soddisfare la pretesa risarcitoria o restitutoria).
La dottrina si è addirittura spinta a prospettare (ed auspicare) de jure condendo (pur nella consapevolezza della sua problematicità anche in termini costituzionali, trattandosi in tesi di strutturare tutele c.d. condizionate) l’introduzione del previo esperimento dell'istanza a provvedere ex art. 42 bis e dell'eventuale tutela giurisdizionale avverso il silenzio quali condizioni di procedi-bilità delle domande risarcitorie e/o restitutorie.
5.- Tutto ciò premesso, va peraltro esaminata – sia in quanto espressamente formulata da parte resistente al preordinato fine di argomentare l’infondatezza della domanda risarcitoria formulata ex adverso, sia in quanto prospetticamente idonea ad evocare, ove fondata, ragione pregiudizialmente preclusiva, in presenza di idoneo titulus adquirendi originario a favore dell’Amministrazione, dell’esercizio del potere acquisitivo ex art. 42 bis T.U. n. 327/2001, stante la correlata carenza del relativo presupposto dell’alienità del bene ad acquisirsi (cfr., da ultimo, Cass., sez. I, 4 luglio 2012, n. 11147, riferita ad un caso di occupazione usurpativa ma con argomento generalizzabile) – l’eccezione intesa a valorizzare l’intervenuta usucapione delle aree oggetto del contestato intervento, che sarebbe maturata a favore dell’Amministrazione espropriante in virtù del possesso ultraventennale, non idoneamente interrotto da opportune e tempestive iniziative giudiziali in funzione recuperatoria.
L’eccezione di intervenuta usucapione (che questo giudice può accertare in via incidentale ex art. 8 c.p.a,. in quanto logicamente concretante questione pregiudiziale) è fondata.
Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente valida non seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di esproprio, il decorso del termine ventennale utilead usucapionem prende avvio solo dal momento in cui l’occupazione diventa contra legem, con il decorso del termine quinquennale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 8 ottobre 2012, n. 4030 e TAR Salerno, sez. II, 9 luglio 2012, n. 1374): nella specie, a far data dal 15 marzo 1988 (con maturazione al 15 marzo 2008);
b) che, ai fini interruttivi, appaiono idonee (in virtù del combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.) esclusivamente iniziative giudiziali in funzione recuperatoria del possesso, e non già intese alla mera condanna al risarcimento del danno: cfr., in termini, Cass. SS.UU. 19 ottobre 2011, n. 21575, proprio argomentando dalla possibilità, per il privato, di attivarsi nel senso della reintegrazione del possesso indipendentemente dalla (non rilevante) trasformazione del bene ablato: con il che, nel caso di specie, non può dirsi giovevole alla ricorrente l’azione risarcitoria in concreto attivata dinanzi al giudice ordinario, con citazione notificata il 23 novembre 1999, conclusasi con statuizione declinatoria della giurisdizione depositata in data 16 settembre 2002, versata in atti;
c) che, per comune intendimento, la maturata usucapione (della quale ricorrono, in concreto, tutti i presupposti, avuto segnatamente riguardo al possesso ultraventennale non interrotto) fa venir meno (non soltanto, come è ovvio, la facoltà di esperire le tutele reali e recuperatorie, stante la correlativa perdita della situazione dominicale, ma anche) l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria (nonché, deve ritenersi, di quella indennitaria), consistente nell'illiceità della condotta lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il periodo successivo al decorso del termine, ma anche per quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti dell'acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse all'adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto (cfr. Cass., 19 ottobre 2011, n. 21575; Cass.. sez. III. 26 giugno 2008, n. 17570; Cass. 8 settembre 2006, n. 19294; merita, peraltro, soggiungere che la soluzione sul punto non potrebbe essere diversa anche ad accogliere il minoritario orientamento, essenzialmente dottrinario, inteso ad argomentare l’irretroattività dell’effetto acquisitivo conseguente alla maturata usucapione);
d) che neppure, del resto, risulta concretamente possibile, ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad esito alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento ex art. 42 bis del T.U. n. 327/2001 (giusta la regola decisoria prospettata in subiecta materia da Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1514 sull’assunto della doverosità nell’an della attivazione del relativo procedimento), per la preclusiva ragione che l’usucapione costituisce già autonomo titolo di acquisto della proprietà e non potrebbe, con ogni evidenza, procedersi all’acquisto di cosa propria (Cass., sez. I, 4 luglio 2012, n. 11147).
6.- Discende dal complesso delle esposte considerazioni che – essendo preclusa, in presenza di avvenuta usucapione, vuoi la via risarcitoria che quella restitutoria, non meno che (a differenza di quel che accade nell’ipotesi “ordinaria”) l’attivazione del processo di acquisizione sanante – la domanda articolata debba essere necessariamente respinta.
Le obiettive incertezze della vicenda sostanziale dedotta in giudizio – aggravate dai mutamenti degli orientamenti giurisprudenziali e dalla modifica nel tempo del quadro normativo di riferimento – impone l’integrale compensazione delle spese e competenze di lite.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 8 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:
Antonio Onorato, Presidente
Giovanni Grasso, Consigliere, Estensore
Ezio Fedullo, Consigliere


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 31/01/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Nessun commento:

Posta un commento